martedì

Pelle



Ci sono dei profumi che vengono usati come vestiti, occhiali come maschere, capelli che issati a corone fanno sentire re e abiti che diventano insostituibili, come pelle

lunedì

Concerto

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Tacheles, un attimo a sera, esco da una galleria, entro in un’altra. Sporco dappertutto, disegni dappertutto, persone che sbirciano, alcune in giacca e cravatta, portafoglio pieno, puzza sotto il naso. È per loro, a volte credo, che questo posto è così. In realtà è dedicato a queste persone, per farle sentire in bilico tra l’essere culturalmente attivi e aperti, e allo stesso tempo concedere loro istinti di superiorità e distanza. Entro da una parte, tra il ferro che si fonde, tra il fuoco che arde, esco dall’altra, tra bottiglie rotte e bicchieri di plastica che calpestati fanno un rumore indimenticabile. Torno in strada, sbircio a sinistra, un tunnel-entrata attira il mio sguardo, qualcuno attacca un poster sulla porta. Quel qualcuno ha capelli lunghi che solleticano, coprono, tagliano una schiena in forma. Attacca il poster del concerto serale.
Un soffio di vento muove la porta d’entrata,
il poster si stacca nel lato alto e sinistro,
quello stesso soffio mi entra nell’orecchio, suggerisce d’entrare.
Mi avvicino all’angolo sinistro, lo alzo e appoggio nuovamente alla porta, non si vuole attaccare. “…” respira qualcuno vicino al mio braccio “It fell down” rispondo di gola.
La mano s’intreccia il poster s’incolla.
“I tried to hang it but it doesn’t wanna stay” ripeto in silenzio. “oh, thank you” sento di striscio, e so che i capelli così lunghi già bevono il mio profumo, “you're welcome” dico, finalmente cercando con le ciglia di accarezzare occhi sconosciuti.
Rughe d’invisibile sole,
pelle rovinata dal soffio del vento,
cespugli di vite come capelli.
Jeans sporchi, unghie forse anche, felpa aperta, braccia senza peli, barba forse solo un po’.
Ciglia dentro gli occhi, mani legate dallo scotch, voci a ingarbugliarsi nella sera – a risuonare nelle orecchie – ritmiche come mantra, dolci come vino.
Con le labbra si avvicina alla guancia, labbra umide e sottili, odore dell’ultima sigaretta a primeggiare (un odore romantico, nostalgico, un odore che porta con sé il ricordo di momenti bellissimi), odore di vizio dimenticato e improvvisamente tornato a pulsare a furia di baci.
Saliva che si attacca sulla pelle,
mani che si appiccicano ai fianchi.
Reciprocità appena palpabili.
Unghie sulla schiena, concorrenza ai graffi dei capelli di rafia.
Voci nelle orecchie,
e voci nell’ombelico,
e voci nella bocca,
tra le dita delle mani,
lì dove non si osa.
Voci dal basso, odore di sigarette, sapore di liquirizia. Tocco la nuca e tiro i capelli dalla radice, bocca semiaperta, da bagnare fuori e dentro, da raschiare con i denti. Denti contro denti, solo ogni tanto. Dita che esplorano veloci, forti - di qualcuno, unghie che graffiano e mani che si aggrappano - le mie. Mura fatte di tatuaggi, e freddo a intermittenza sulla schiena, solo nella spiaggia sopra il mare, solo quando la maglia scivola via, trascina via, si strappa via, ritmica. Non barba che un po’ riga la piega del collo, rafia che un po’ graffia gote arrossate.
La testa volge al cielo-soffitto.
Gli occhi rimangono chiusi.
La bocca rimane in attesa.
Mano destra che stringe il seno destro, gamba sinistra che trascina verso me, gamba destra perno del mondo, e mano sinistra appoggio esistenziale. Incroci necessariamente acrobatici. Due corpi un gomitolo, rumori preconcerto dietro la mia testa appoggiata.
Musica attutita,
ossa contro carne,
carne contro muro,
batterie fuori e dentro,
ventre che rimbalza,
ventre che scivola.
Sapori.
Divento saliva e sperma.
Diventa saliva e sudore.
Accolgo la fronte sulla spalla,
penzolii.
La mia testa appesa al muro, tatuaggio ormai stampato sulla schiena.
Qualcuno si veste veloce nella stanza dietro alla porta, io mi vesto veloce nella stessa stanza. La folla acclama, la folla pretende, è pronta. Mi mordo un labbro mentre qualcuno si volta e sorride, s’allontana, di nuovo s’avvicina, assaggia il lobo caramella e sussurra: “the first song is for you”.
Raccolgo la borsa, richiudo la porta. Il poster strappato mi guarda soddisfatto.

domenica

Considerazioni sulla sofferenza.

La sofferenza grandissima che prova non è maggiore di quella altrui, ma forse neanche minore.
È il risultato di una solitudine che deriva da una non accettazione del sé, e ricerca di questa accettazione negli atteggiamenti e negli occhi altrui. Come se gli altri e il loro incondizionato amore potesse essere la soluzione. Ma è evidente che sovraccaricare ognuno con la ricerca della soddisfazioni dei propri bisogni bulimici non è la soluzione, ma solo la perpetuazione di un cerchio che si ripete inevitabilmente e inesorabilmente con l’allontanamento spontaneo della persona cura o con l’allontanamento voluto in quanto la persona stessa non può essere, fingersi o plasmarsi soluzione del problema.